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LA STORIA DI QIU JU
(QIU JU DA GUANSI)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 dicembre 1992
 
di Zhang Yimou, con Gong-Li, Lei Laosheng (Cina, 1992)
 
Un segno che distingue i cineasti più grandi (i Kubrick, i Bergman) è quello della mutazione: la capacità, cioè, di cambiare, il rifiuto di lasciarsi inquadrare in un genere, in uno stile. In quello che arrischia di diventare un vizio, magari anche squisito.

Regista della donna (e di una donna: la splendida Gong-Li, come Sternberg e Marlene, Rossellini e Ingrid Bergman, Antonioni e Monica Vitti), regista dell'individuo imprigionato in un sistema arcaico che, progressivamente, prende coscienza di un mutamento - psicologico, storico, sociale - che avviene fuori, e dentro di sé, Zhang Yimou era noto per il sontuoso fulgore delle proprie immagini. Vertiginosa stilizzazione di forme, spazi e, soprattutto, drammatizzazione dei colori: LE LANTERNE ROSSE rappresentava il punto più alto raggiunto da colui che, assieme a Chen Kaige, Hou Siao Hsien ed Edward Yang, sta spostando l'asse trionfante del cinema sempre più verso l'Oriente. Un punto ormai al limite? Forse, considerate le parole di Zhang stesso: "Questa volta desideravo fare qualcosa di diverso, Cambiare stile, concentrandomi più sulla storia che sulle immagini".

Incinta ed infagottata, quella che è considerata una delle star più belle al mondo interpreta una contadina della Cina del Nord: il marito è stato preso a pedate dal capo del villaggio. Offesa, umiliata, la donna chiede riparazione: non tanto un risarcimento (che le viene infatti frettolosamente accordato), ma quello che i cinesi chiamano "shuafa", una spiegazione. Il chiarimento, la chiave di un enigma (cosa fare, come fare, a chi rivolgermi per far progredire le cose?) infinitamente più difficile da ottenere nella società, nella mentalità di quel paese: Qiu Ju ricorrerà alla giustizia del capoluogo, assurdamente sempre più in alto, in una rincorsa che farà del labirinto burocratico qualcosa d'immensamente più laborioso della colpa originale, di lei una tragicomica eroina di ruralità kafkiana, e del film un atto politico e morale. Perché da aneddoto, autentico ed elementare, il film si fa riflessione sui limiti della psicologia, della giustizia e della vendetta: dopo che quel brav'uomo di un capo del villaggio l'avrà aiutata a partorire, l'ultima inquadratura del film - un fermo sull'immagine - mostrerà Qiu-Ju sola, interdetta, nel mezzo della sua campagna immobile nel tempo.

Straordinariamente, come solo accade nel cinema più maturo, LA STORIA DI QIU JU conserva i temi, le rivendicazioni, le preoccupazioni del suo autore: ma li esprime stravolgendoli. Un avvenimento autentico ed elementare, situato (per la prima volta nella carriera del regista) nella Cina contemporanea, con degli attori in buona parte scelti fra il popolo, dei professionisti sui quali ci si impone di evitare qualsiasi accentuazione drammatica, una cinepresa - spesso nascosta - che fa scendere la sua storia fra la gente, vera in un ambiente vero. Non è altro che la grande lezione del neorealismo: inserendo una storia in parte recitata, voluta, inventata, in un ambiente che sappiamo essere autentico, anche l'invenzione, la riflessione si caricano per la spettatore di quella stessa verità. La volitiva contadina Gong-Li colta quasi di sorpresa nella folla trascrive la grande la lezione di Rossellini: sorprende - ed esalta - che questo Viaggio in Cina ci giunga dall'esteta sopraffino delle concubine scarlatte.


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